Non so se vi è capitato di vedere qualche episodio di Sherlock, la serie televisiva prodotta dalla BBC e ispirata alle avventure di Sherlock Holmes raccontate da Arthur Conan Doyle. Devo dire che non mi entusiasma, al contrario di Black Mirror (questo trailer ve ne dà un’idea), e di Downton Abbey (qui il trailer), giusto per ricordare due eccellenze britanniche in generi assai diversi.
Ne parlo qui per un solo motivo: il protagonista, lo Sherlock televisivo, ha una personalità disturbata. È irritabile, impaziente, anaffettivo, rude, sociopatico e costantemente annoiato. Insulta senza pietà chiunque lo infastidisca dicendo sciocchezze (e perfino pensando sciocchezze) mentre lui è intento a organizzare in una teoria la molteplicità delle proprie fulminee percezioni: sarebbe meraviglioso se tu stessi zitto, sbotta gelido. Oppure: non parlare a voce alta, abbassi il QI di tutta la strada.
Oppure, semplicemente, sibila: shut up, chiudi il becco.
Bene. Anche se non si tratta di Sherlock Holmes e di omicidi efferati. Anche se in giro non c’è nessun genio sociopatico e nessun genio non sociopatico, e nessun intricato mistero da risolvere. Anche se tutti siete persone beneducate. Anche se non vi trovate sulla scena di un crimine ma in una normale situazione di lavoro creativo. E, soprattutto, anche se non siete dentro una stravagante serie televisiva, ma immersi nella faticosa realtà quotidiana.
Anche se succede tutto questo, ci sono momenti in cui, se a fare un lavoro creativo siete voi, dire chiudi il becco! è necessario, doveroso e sacrosanto. Momenti in cui, simmetricamente, tenere il becco chiuso è il miglior contributo che potete dare se a fare il lavoro creativo non siete voi.
Osservando le molte schematizzazioni del processo creativo che, da poco meno di un secolo a questa parte, sono state prodotte, potete vedere che questo viene diviso in fasi e sottofasi. Non bisogna pensare a queste fasi come alle tappe di un percorso lineare (per esempio, le tappe di un viaggio): ciascuna corrisponde, piuttosto, ad attività e stati mentali differenti, in cui pensiero logico-razionale e pensiero analogico e intuitivo si alternano.
Raramente il passaggio dall’una all’altra fase è certo e automatico, e capita spesso di dover tornare sui propri passi. Ma succede anche di sperimentare elettrizzanti accelerazioni improvvise grazie al flow: il flusso creativo teorizzato da Mihaly Csikszentimihaly.
Ecco: quando capita la fortuna di trovarsi in un momento di intensa, assoluta e promettente concentrazione sul compito da svolgere o sul problema da risolvere, qualsiasi interruzione è deleteria. Un commento inopportuno, un’inutile richiesta di spiegazioni, un suggerimento sballato (“idiota”, direbbe Sherlock) e perfino un suggerimento giusto, e qualsiasi altro intervento esterno si tramutano, più che in un disturbo, in un trauma.
È come sbattere contro un filo d’acciaio teso mentre si sta correndo a rotta di collo.
Lo stesso effetto disastroso si verifica se venite sviati nel corso di un altro momento assai delicato: quello in cui siete focalizzati sulla meticolosa messa a punto e la verifica delle coerenze interne del prodotto creativo. Tutto si tiene? È equilibrato? È corretto in ogni dettaglio? C’è qualche errore nascosto e insidioso? In questo momento, essere interrotti è come essere investiti da una secchiata d’acqua gelida mentre si è in stato di trance.
A volte chi interviene lo fa con le migliori intenzioni: vuole cooperare e partecipare al divertimento della creazione (qualsiasi lavoro creativo, a chi non lo pratica, sembra sempre e solo divertente).
Qualche volta, invece, le intenzioni non sono così buone: l’offerta di cooperazione non è altro che un’espressione di ansia e diffidenza, o del desiderio di controllare un processo che, per sua natura, è fuori dal controllo di tutti, e perfino di chi ci si trova in mezzo: per questo è così incerto e delicato.
Che fare, in questi casi? Si può provare a spiegare che ci sono situazioni (per esempio, il momento della raccolta dei dati e della definizione del problema, o quello in cui si verificano l’efficacia e l’appropriatezza del lavoro svolto) in cui qualsiasi contributo esterno è non solo bene accetto, ma prezioso. E che ci sono fasi d’elaborazione e messa a punto in cui tranquillità e concentrazione devono essere rispettati, se non si vuole pregiudicare l’intero processo. Insomma: si discute finché si vuole prima e dopo il lavoro. Non mentre si sta lavorando.
Ma le spiegazioni non sempre sortiscono il desiderato effetto-silenzio, e “chiudi il becco”, in tutte le sue colorite varianti, diventa l’unica reazione possibile se si vuole salvaguardare il buon esito del lavoro. Insomma: “chiudi il becco” fa parte del gioco creativo, e conviene che lo sappiano tutti, assorti giocatori e ansiosi, diffidenti o volonterosi spettatori.
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