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Come si esprime la creatività: i modelli del processo creativo

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La descrizione più nota del processo creativo è quella per fasi successive proposta dallo psicologo ed educatore inglese Graham Wallas con Richard Smith, autori del testo The art of thought pubblicato nel 1926.
Le fasi descritte da Wallas sono cinque, ma nella maggior parte delle pubblicazioni vengono ricondotte a quattro:

• preparazione: la raccolta dei materiali e delle informazioni su cui lavorare e la loro organizzazione. Chiede un atteggiamento metodico e sistematico. A volte un’indagine viene messa in moto da un colpo di fortuna: per esempio, A. H Becquerel scopre la radioattività accorgendosi che un composto a base di uranio ha impressionato una lastra fotografica coperta sul quale l’aveva appoggiato. Ma comunque sta lavorando con l’uranio, comunque ha lastre fotografiche in laboratorio, e comunque ha conoscenze sufficienti a riconoscere come rilevante un fenomeno prodotto in modo casuale, così come Fleming comunque sta lavorando su una coltura di stafilococchi, e comunque è un batteriologo.
Caratteristiche di questa fase sembrano essere: capacità di individuare un problema, familiarità con i fatti di base, orientamento a trovare una soluzione.

• incubazione: l’elaborazione mentale dei materiali disponibili, alla ricerca di un ordine che produca un nuovo senso. È un processo che si sviluppa per prove ed errori, per flussi di pensiero apparentemente disordinati, altalenanti. Continua anche in momenti nei quali l’attenzione cosciente è sospesa. Per esempio, nel sonno. Descartes dice di essersi imbattuto per la prima volta nelle nozioni fondamentali della geometria analitica durante di due sogni. Grazie a un sogno (atomi che danzano in un anello – l’anello benzenico: la forma della più complessa delle strutture molecolari) Friedrick Kekulé risolve il problema della combinazione del carbonio e dell’idrogeno nel benzene. E’ uno dei passi più importanti nello sviluppo della chimica organica. L’archeologo Hermann Hilprecht decifra in sogno un’iscrizione babilonese.
Einstein comincia a sedici anni a preoccuparsi di certi problemi fondamentali della fisica, legati al significato della velocità della luce. Quando si rende conto che il problema può essere risolto mettendo in discussione il concetto di tempo, gli bastano cinque settimane per stendere la famosa memoria sulla relatività, anche se lavora a tempo pieno alll’ufficio svizzero dei brevetti.

• illuminazione o insight: l’intuizione, spesso istantanea, dell’esistenza di una soluzione inaspettata e differente da tutto quanto si era ipotizzato in precedenza. Sembra presentarsi in modo spontaneo e inatteso. E spesso unito a una forte reazione di carattere emozionale. Il fatto che una soluzione si presenti all’improvviso è piuttosto sorprendente anche per chi lo sperimenta. Henri Poincaré racconta di aver risolto un complesso problema matematico mentre stava salendo su un autobus e non ci stava pensando. Alcuni ricercatori insistono sul fatto che la soluzione balenata all’improvviso è completamente diversa da tutte quelle precedentemente prese in considerazione (Hadamard, 1945).

• verifiche: prove, messe a punto e formalizzazione. Il metodo scientifico prevede che una scoperta venga presentata attraverso un’argomentazione formale, partendo da una serie di assiomi o principi fondamentali. Strutturare un’intuizione nei termini di un’argomentazione formale un modo per verificarne la consistenza. Dice Einstein : … è molto raro che io pensi con parole. Mi balena il pensiero, e solo più tardi posso cercare di esprimerlo… in tutti questi anni ho avuto la sensazione di muovermi in un senso preciso, verso qualcosa di concreto… una cosa profondamente diversa dalle considerazioni successive sulla forma logica della soluzione. Naturalmente dietro questo senso di una direzione precisa c’è sempre qualcosa di logico; ma per me si presenta sempre come una specie di sguardo generale; in un certo senso, visivamente.

La fase mancante, che Wallas chiama intimation e che viene prevalentemente presentata come una sub-fase, è la sensazione di essere sulla strada giusta, accompagnata da una eccitazione crescente, che a volte precede l’insight.

La sequenza proposta da Wallas è plausibile e prevede un’alternanza tra pensiero logico e pensiero analogico. Il pensiero logico procede in modo lineare, per sequenze (causa/effetto, prima/dopo, premesse/conseguenze), il pensiero analogico si sviluppa in modo non lineare per somiglianze/differenze, suggestioni,metafore. Richiedono ragionamenti logici e strutturati la prima fase, e l’ultima. Richiedono pensiero analogico la seconda fase e la terza.
Altri autori immaginano sequenze diverse. Uno schema molto antecedente, proposto dal filosofo americano John Dewey, (Come pensiamo, 1910) suddivide il processo in cinque stadi: sensazione di una difficoltà, individuazione e definizione del problema, proposta di possibili soluzioni, esame delle soluzioni, verifica delle soluzioni con prove sperimentali.

Nel 1931 Rossmann parla di sette stadi (osservazione di un bisogno, analisi del bisogno, rassegna delle informazioni disponibili, formulazione delle soluzioni probabili, analisi critica, invenzione vera e propria, sperimentazione). Eindhoven e Vinacke (1952) trovano necessario introdurre fasi diverse per descrivere accuratamente l’attività degli artisti e le differenze tra soggetti esperti e non esperti. Osborn (1953) torna al numero sette, individuando: orientamento, preparazione, analisi, ideazione, incubazione, nuova sintesi, valutazione. Johnson (1955) dice che è meglio ridurre tutto a tre fasi fondamentali: preparazione, produzione e giudizio.

Alla fine del secolo scorso lo psicologo neofreudiano Didier Anzieu elenca sei fasi, ma opera uno slittamento di prospettiva: parte da ciò che Wallas chiamerebbe incubazione e insight fino a comprendere il periodo dopo che il processo creativo vero e proprio si è concluso.
Il punto di partenza è il saissement: una discontinuità di vita, positiva o negativa, che porta l’individuo ad abbassare la guardia e a diventare più recettivo nei confronti di un’intuizione. Lo stato di saissement può essere favorito da un eccesso (contatti umani, alcol, viaggi, droghe, sesso) o da un difetto (silenzio, solitudine, astinenza, immobilità) di stimoli. Segue una presa di coscienza , che coincide con la fine dello stato di grazia e con il presentarsi di dubbi e timori sull’intuizione avuta. Poi l’intuizione progressivamente si organizza, si struttura e si definisce nelle fasi di composizione e realizzazione. Il licenziamento è un momento critico: l’idea, nella sua forma definitiva, viene consegnata al mondo, ma deve essere spiegata, sostenuta, promossa. Infine, c’è il rammarico: la sensazione dell’autore che avrebbe potuto far di meglio, o il timore di non riuscire a fare altrettanto bene in futuro.

L’insight, comunque lo si definisca, resta una faccenda piuttosto misteriosa. Nessuno di questi modelli riesce a dare pienamente conto del fatto che all’interno del processo alcune fasi possano sovrapporsi (per esempio, l’individuazione del problema e la raccolta di ìinformazioni. Oppure la raccolta di informazioni e l’incubazione), e del fatto che la sovrapposizione possa dipendere sia dalla natura del problema che dallo stile personale, dal carattere, dal grado di ossessività di chi lo affronta. Infine, nessuno dei modelli riesce a descrivere processi creativi complessi: per esempio, nella ideazione e realizzazione di un film non uno ma moltissimi momenti creativi di ricerca, incubazione insight e verifiche si susseguono e si intrecciano, della stesura dello script a quello del montaggio definitivo, e fanno capo a persone differenti.

Forse, potrebbe essere fertile immaginare il processo creativo come una struttura frattale: sequenze minori all’interno di sequenze maggiori, piccole scelte all’interno di grandi scelte.
Sia gli studiosi del fenomeno che le persone che hanno sperimentato importanti intuizioni creative concordano comunque su alcuni dati. Per esempio, la capacità di visualizzare strutture complesse e di pensare per immagini (le immagini sono il codice psichico più denso e immediato. Per Jung la psiche è immagine. E per immaginare servono… immagini. Che, tradotte in parole, diventano narrazioni) sembra essere una componente ricorrente dell’attitudine a sviluppare pensiero creativo, anche al di fuori dell’ambito delle arti figurative: molte delle metafore relative alla creatività hanno carattere visivo (brancolare nel buio…avere un’illuminazione… lampo di genio). E’ anche comunemente riconosciuta l’importanza ricoperta dall’apparente inattività e dalla natura ondivaga e destrutturata del pensiero proprie della fase di incubazione, senza la quale risulta impossibile disfarsi di idee non appropriate o strutture di pensiero inefficaci.

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Metodo 34: forma o contenuto? Attenzione al “nientino d’oro”

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Mia nonna Alfonsina era nata negli ultimissimi anni dell’Ottocento. Era alta poco più di un metro e cinquanta e quando, a otto anni e appena finita la seconda elementare, lavorava incollando scatole di fiammiferi alla Saffa di Magenta, avevano dovuto metterle uno sgabello sotto i piedi perché era così bassa di statura da non riuscire a raggiungere il bancone.
Come vi dicevo, non sarebbe cresciuta poi tanto.
Parlava solo il dialetto milanese bastardo dei contadini. Quando facevo la brava, e le chiedevo di premiarmi per questo, rispondeva che mi avrebbe dato un bel niguttin d’or: un bel nientino d’oro. Una promessa che è un concentrato di attese e fatale delusione.

Del rapporto che lega forma e contenuto si discute dai tempi di Platone, e non ho alcuna intenzione di mettermi a filosofarci sopra. A chi fa un lavoro creativo, e negozia quotidianamente con contenuti in cerca di forma, basta ricordare che noi percepiamo e comprendiamo ed entriamo in contatto con qualcosa solo nella forma in cui quel qualcosa si esprime per noi.
Senza una “forma”, qualsiasi “contenuto” rimane potenziale. La forma, dunque, non è un accessorio, ma la condizione necessaria perché il contenuto si manifesti a noi.

Così, percepiamo il pensiero e il sentimento attraverso parole che lo formalizzano (segni fatti di significanti che veicolano significati, ed esprimono – o meno – un senso). O attraverso tratti e colori che ce lo illustrano, formule che lo evocano, documenti e grafici che lo spiegano. Percepiamo il tempo ordinandolo in sequenze di eventi, e strutturandolo per catene di cause ed effetti: le storie e la Storia. Percepiamo lo spazio nelle strutture formali che ricostruiamo a partire dal nostro punto di vista. Percepiamo una faccia attraverso le sue proporzioni. E così via (e se vi è piaciuto il video che ho linkato, guardatevi anche questo).

Ma torniamo alla creatività, e al nientino d’oro della nonna: il lavoro creativo, per molti versi, non è altro che una infinita messa in forma di infiniti contenuti possibili. E sì, la messa in forma – e nella forma migliore – è fondamentale. C’è da sbattersi ben bene e da investire abilità e pazienza per metterla a punto.
Ma andare alla ricerca della forma senza avere avuto prima l’intuizione forte di un contenuto (l’idea che può diventare un racconto. La visione che può diventare un quadro, o un film. O un progetto politico. Il problema che può trasformarsi in una soluzione. Il quesito che contiene in sé il germe di una scoperta. Il concept che può diventare un prodotto…) è un lavoro a vuoto.
Eppure spesso si fa l’errore di partire in quarta con le preoccupazioni formali senza controllare che ci sia qualcosa di consistente, da mettere in forma. Succede perché lavorare sui contenuti è più difficile. Più incerto. E, soprattutto, perché aggiustare la forma è in fin dei conti più rassicurante che scornarsi coi contenuti: i quali, ancora privi di forma, scappano da tutte le parti, in tutti gli universi del possibile.
Eppure, un lavoro solo formale non sta in piedi, e bisogna ricordarsene. Produce solo apparenze fragili. Fumo senza arrosto. E la delusione del niguttin d’or.

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Metodo 54: ripartire dall’inizio per arrivare più in là

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Succede fin troppo spesso. Siete impegnati in un lavoro creativo che via via si fa più ingarbugliato e a un certo punto non sapete più che direzione scegliere. Così, vi ingarbugliate ancora di più in un crescendo di tentativi.
O vi capita di riprendere in mano un lavoro lasciato in sospeso per un po’, e… dannazione, anche le parti che in precedenza apparivano compiute e soddisfacenti adesso sembrano appannate.
O magari vi trovate ad aver concluso un lavoro fin troppo in fretta, solo per accorgervi che qualcosa non funziona.
In tutti questi casi, e in molti altri analoghi (per esempio: cambiano le condizioni di contesto. Avete un committente che vi fa le pulci. E così via) c’è un paio di cose che vi conviene fare per togliervi dai guai. E soprattutto per non infilarvi in guai peggiori.
La prima – è meno semplice di quanto sembri, ma si tratta di un passo necessario – è armarvi di santa pazienza, ricordare che i processi creativi non sono mai lineari e che gli intoppi fanno parte integrante del gioco e affliggono tutti, anche i più bravi e i più scafati.
La seconda è ricominciare da capo, ma proprio da capo. Vi dico come.

Dunque, fate un bel respiro e appellatevi al vostro senso di disciplina. Poi, dimenticate tutto quanto avete fatto finora (ma non buttatelo via: mettetelo semplicemente da parte. Magari qualcosa tornerà a servirvi), e reset!, disponetevi a ripartire dall’inizio. Procedete lentamente e rifocalizzatevi sulle coordinate di base:
- prima di tutto: il compito che dovete svolgere (o il problema che dovete risolvere) è proprio quello che avete affrontato? Ed è chiaro (cioè: è espresso nel modo più consistente e lineare possibile)? O invece, anche alla luce della vostra prova precedente, adesso siete in grado di ridefinirlo meglio?
- quali sono i dati o l’idea di partenza? Ci sono tutti i dati che servono? Se c’è un’idea, si tratta di un’idea che continua a sembrarvi buona?
- quali sono i vincoli (tempo, spazio, soldi, pubblico, fattibilità…)? Ne avete dimenticato, sopravvalutato o sottovalutato qualcuno? C’è qualche vincolo nuovo?
- qual è l’obiettivo o il risultato che volete ottenere? È abbastanza definito ed è abbastanza realistico?

Ed ecco le cose meravigliose che, se davvero ricominciate da capo, possono capitare:
- vi accorgete che il compito in realtà è un altro. Notare una differenza, anche piccola, può portarvi immediatamente alla soluzione che prima vi sfuggiva.
- vi accorgete che vi mancano dei dati. Ve li procurate, e tutto diventa più semplice. Vi accorgete che l’idea di partenza è inattuabile e, non appena la modificate, tutto va meglio.

- vi accorgete che un vincolo che avevate sottovalutato, o un nuovo vincolo, vi guida verso un’opportunità prima nascosta.
- vi accorgete che tra compito dato e risultato da ottenere, così come li avete definiti, c’è una discrepanza. La eliminate, e tutto diventa più lineare.

Se nessuna di queste cose meravigliose succede, non preoccupatevi. Anche se il tempo è poco, ricordate che agitarvi vi fa solo perdere altro tempo.
Con calma, ora ripercorrete tutti i passaggi che avete fatto per arrivare, tenendo ben presenti coordinate, vincoli e obiettivo: dopotutto li avete appena riesaminati, e ora dovreste averli ben chiari.
Rifacendo tutto il percorso potreste scoprire nuove strade. Non andate troppo in fretta, ma neanche troppo piano, in modo da poter osservare ciascun passaggio nel contesto dell’intero processo.
Oppure cambiate velocità: prima riesaminate ciascun singolo passaggio lentamente, poi li scorrete in fretta, stando più attenti agli inciampi che possono annidarsi tra un passaggio e l’altro.
Un altro buon modo per ripercorrere i passaggi è raccontarli a qualcuno: questo vi permette anche di “esportarli da voi stessi”, osservandoli in una nuova prospettiva.

Potete fare altre cose ancora.
- crearvi uno spazio mentale (e possibilmente un’immagine) di quanto state facendo: che forma ha? Qual è la sua struttura? È storta, troppo vuota o troppo piena da qualche parte?
- cambiare l’ordine degli elementi in gioco. Per esempio, provate a partire dai vincoli: che cosa vi stanno dicendo? O dal risultato: che cosa vi manca per arrivarci?
Infine, potete fare (non scherzo) una passeggiata. Oppure potete (non scherzo) dormirci sopra.

Se volete approfondire le caratteristiche e le dinamiche del processo creativo, inciampi compresi, potreste leggervi il capitolo 14 de La trama lucente. Vi basta un clic qui per scaricarlo, gratis, insieme ad alcuni altri.

Vi auguro buon anno, e ottime idee.

Se vi è piaciuto questo post potreste leggere anche:
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Che cosa è la creatività e che cosa la uccide
Procedere all’indietro… col reverse engineering

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Metodo 64: quattro cose da chiedersi prima di cominciare un lavoro creativo

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Cominciare a fare qualsiasi cosa (anche a mettere ordine negli armadi, a organizzare un viaggio o a fare i compiti) chiede un di più di fatica: se non altro, quella di prendere la decisione che conviene darsi da fare. Ma un compito creativo comprende una dose di incertezza che altre attività non hanno e c’è bisogno di qualche cautela ulteriore.
Questo articolo è simmetrico a quello in cui, qualche tempo fa, ho raccolto alcuni suggerimenti utili a concludere bene un lavoro creativo. Qui invece, più che di cominciare bene (qualche volta ci si riesce in modo fluido e qualche volta, invece, bisogna fare i conti con una serie di false partenze), parliamo di non cominciare proprio male e, come diceva mia nonna, cont el coo in del sacc (con la testa nel sacco).
La prima cosa da fare, naturalmente, è evitare di procrastinare oltre ogni ragiovevolezza.
Ma poi…

L’OBIETTIVO È CHIARO? Riuscite a dirlo e, magari, a scriverlo in poche parole che siano specifiche e concrete? Mi spiego: “affrontare in modo innovativo le sfide del futuro” non è un obiettivo chiaro. Funziona al massimo per l’ennesimo intervento inconcludente all’ennesimo convegno inutile (ma, se è questo che dovete fare, vi conviene comunque riformulare in: “devo preparare l’ennesimo intervento inconcludente per l’ennesimo convegno inutile, nel corso del quale in 20 minuti, corrispondenti a una pagina appunti, o a 3/5 cartelle di testo, o a 10/15 tavole di powerpoint, dico almeno tre cose suggestive su innovazione e futuro, e tre cose suggestive su sfide e modi virtuosi per affrontarle. Bene: quali sono le tre + tre cose? Come le racconto? Quali esempi o evidenze o dati uso? Come esordisco? Come concludo?).

GLI ELEMENTI IN CAMPO SONO A FUOCO? Se invece qualcuno si aspetta sul serio (auguri!) che gli diciate “come affrontare le sfide del futuro”, cominciate a specificare, domandandovi: di quali sfide stiamo parlando, per chi? E di quale futuro (sei mesi o vent’anni)? In quale ambito? Con quali risorse? Con quali rischi? Quali sono, fra tutte, le maggiori aree di miglioramento che si possono considerare realisticamente? E in concreto che cosa significa intervenire? Per esempio: cambiare regole e processi (quali? Chi può effettivamente farlo?). O acquisire competenze o strumenti (chi? Quali?). O lanciare messaggi (quali? Chi a chi?). E così via. Solo dopo che avete risposto a queste domande potete riformulare l’obiettivo, per esempio, in: “come Tizio può cambiare la regola X, migliorare la competenza Y o favorire il comportamento Z (…per affrontare eccetera)”.
Se l’obiettivo è ancora troppo ampio o sfuocato, ricominciate a farvi domande, e stringete.
Solo quando avete un obiettivo chiaro e concreto siete in grado di lavorare in maniera creativa. Cioè: solo dopo che sapete bene quel che dovete ottenere, a partire da quali elementi, potete allargare la vostra prospettiva cercando un modo creativo, cioè nuovo e appropriato, per ottenere il risultato che volete.
Spesso le persone, specie quelle inesperte, cominciano senza aver deciso bene che cosa vogliono ottenere. Il rischio è sprecare un sacco di energie, non arrivare da nessuna parte, e non capire neanche perché. Lavorare sugli obiettivi è in sé un compito creativo, preliminare a tutto il resto.

AVETE TUTTI I DATI CHE VI SERVONO? Beh, in realtà non potete saperlo fino a quando non state lavorando. Ma è comunque indispensabile iniziare avendo in mano non opinioni o sensazioni, ma qualcosa di solido. L’altra buona norma è controllare (oggi la rete permette di farlo in pochi clic) se qualcuno, in qualche parte del mondo e in qualche tempo, ha già affrontato un problema o un tema analogo: di qualsiasi cosa vi stiate occupando, quasi certamente non siete i primi.
Bene: in che cosa le soluzioni esistenti sono migliorabili? Per quali motivi funzionano meno bene di quanto potrebbero?
Solo quando avete queste informazioni potete immaginare che cosa potreste inventarvi di diverso o migliore. Il tempo che investite per cercare e studiare è ben speso, vi evita di produrvi nell’ennesima scoperta dell’acqua calda e vi aiuterà anche a spiegare meglio la vostra idea.

AVETE IN MENTE COME PROCEDERE? Se andate avanti in maniera routinaria, difficilmente vi verranno in mente idee nuove. Un altro importante compito preliminare (e a sua volta creativo) è trovare nuovi strumenti, capaci di aiutarvi a produrre idee nuove. Dunque, cercate uno schema, un procedimento, una sequenza possibile di idee, o almeno un punto di appoggio che vi aiuti ad andare avanti. Qual è, caso per caso, la prima cosa su cui cominciate a ragionare? Riuscite a darle una forma e, in qualche modo, a vederla? Riuscite a dare una forma all’intero problema? Non dimenticate che il pensiero creativo è in primo luogo visivo. Createvi un’immagine o un paesaggio mentale: poi, procedendo, lo cambierete mille volte. Ma intanto cominciate a decidere dove siete. Ed evitate di brancolare nel buio e nel vuoto, che è sempre una sensazione sgradevole.

Tutto questo riguarda il primo punto (preparazione) del processo creativo secondo Wallas. Ma, anche se lo chiamate in altri modi (definizione del problema, analisi del bisogno e rassegna delle info disponibili…) si tratta sempre di cominciare un lavoro creativo stabilendo un punto di partenza e un punto di arrivo, e di dotarsi di un bagaglio utile per viaggiare dall’uno all’altro. Poi, si sa, succederanno comunque un sacco di imprevisti. Ma anche questo fa parte del gioco.

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Metodo 79. Chiudi il becco!

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Non so se vi è capitato di vedere qualche episodio di Sherlock, la serie televisiva prodotta dalla BBC e ispirata alle avventure di Sherlock Holmes raccontate da Arthur Conan Doyle. Devo dire che non mi entusiasma, al contrario di Black Mirror (questo trailer ve ne dà un’idea), e di Downton Abbey (qui il trailer), giusto per ricordare due eccellenze britanniche in generi assai diversi.

Ne parlo qui per un solo motivo: il protagonista, lo Sherlock televisivo, ha una personalità disturbata. È irritabile, impaziente, anaffettivo, rude, sociopatico e costantemente annoiato. Insulta senza pietà chiunque lo infastidisca dicendo sciocchezze (e perfino pensando sciocchezze) mentre lui è intento a organizzare in una teoria la molteplicità delle proprie fulminee percezioni: sarebbe meraviglioso se tu stessi zitto, sbotta gelido. Oppure: non parlare a voce alta, abbassi il QI di tutta la strada.
Oppure, semplicemente, sibila: shut up, chiudi il becco.

Bene. Anche se non si tratta di Sherlock Holmes e di omicidi efferati. Anche se in giro non c’è nessun genio sociopatico e nessun genio non sociopatico, e nessun intricato mistero da risolvere. Anche se tutti siete persone beneducate. Anche se non vi trovate sulla scena di un crimine ma in una normale situazione di lavoro creativo. E, soprattutto, anche se non siete dentro una stravagante serie televisiva, ma immersi nella faticosa realtà quotidiana.
Anche se succede tutto questo, ci sono momenti in cui, se a fare un lavoro creativo siete voi, dire chiudi il becco! è necessario, doveroso e sacrosanto. Momenti in cui, simmetricamente, tenere il becco chiuso è il miglior contributo che potete dare se a fare il lavoro creativo non siete voi.

Osservando le molte schematizzazioni del processo creativo che, da poco meno di un secolo a questa parte, sono state prodotte, potete vedere che questo viene diviso in fasi e sottofasi. Non bisogna pensare a queste fasi come alle tappe di un percorso lineare (per esempio, le tappe di un viaggio): ciascuna corrisponde, piuttosto, ad attività e stati mentali differenti, in cui pensiero logico-razionale e pensiero analogico e intuitivo si alternano.
Raramente il passaggio dall’una all’altra fase è certo e automatico, e capita spesso di dover tornare sui propri passi. Ma succede anche di sperimentare elettrizzanti accelerazioni improvvise grazie al flow: il flusso creativo teorizzato da Mihaly Csikszentimihaly.

Ecco: quando capita la fortuna di trovarsi in un momento di intensa, assoluta e promettente concentrazione sul compito da svolgere o sul problema da risolvere, qualsiasi interruzione è deleteria. Un commento inopportuno, un’inutile richiesta di spiegazioni, un suggerimento sballato (“idiota”, direbbe Sherlock) e perfino un suggerimento giusto, e qualsiasi altro intervento esterno si tramutano, più che in un disturbo, in un trauma.
È  come sbattere contro un filo d’acciaio teso mentre si sta correndo a rotta di collo.

Lo stesso effetto disastroso si verifica se venite sviati nel corso di un altro momento assai delicato: quello in cui siete focalizzati sulla meticolosa messa a punto e la verifica delle coerenze interne del prodotto creativo. Tutto si tiene? È equilibrato? È corretto in ogni dettaglio? C’è qualche errore nascosto e insidioso? In questo momento, essere interrotti è come essere investiti da una secchiata d’acqua gelida mentre si è in stato di trance.

A volte chi interviene lo fa con le migliori intenzioni: vuole cooperare e partecipare al divertimento della creazione (qualsiasi lavoro creativo, a chi non lo pratica, sembra sempre e solo divertente).
Qualche volta, invece, le intenzioni non sono così buone: l’offerta di cooperazione non è altro che un’espressione di ansia e diffidenza, o del desiderio di controllare un processo che, per sua natura, è fuori dal controllo di tutti, e perfino di chi ci si trova in mezzo: per questo è così incerto e delicato.

Che fare, in questi casi? Si può provare a spiegare che ci sono situazioni (per esempio, il momento della raccolta dei dati e della definizione del problema, o quello in cui si verificano l’efficacia e l’appropriatezza del lavoro svolto) in cui qualsiasi contributo esterno è non solo bene accetto, ma prezioso. E che ci sono fasi d’elaborazione e messa a punto in cui tranquillità e concentrazione devono essere rispettati, se non si vuole pregiudicare l’intero processo. Insomma: si discute finché si vuole prima e dopo il lavoro. Non mentre si sta lavorando.
Ma le spiegazioni non sempre sortiscono il desiderato effetto-silenzio, e “chiudi il becco”, in tutte le sue colorite varianti, diventa l’unica reazione possibile se si vuole salvaguardare il buon esito del lavoro. Insomma: “chiudi il becco” fa parte del gioco creativo, e conviene che lo sappiano tutti, assorti giocatori e ansiosi, diffidenti o volonterosi spettatori.

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Come funziona la creatività: i modelli del processo creativo

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Come si sviluppa un processo creativo? Molti autori hanno provato a formalizzarne lo svolgimento. Ne sono usciti diversi modelli, che presentano però numerose analogie. La descrizione più nota del processo creativo è quella per fasi successive proposta dallo psicologo ed educatore inglese Graham Wallas con Richard Smith, autori del testo The art of thought, pubblicato nel 1926. Le fasi […]

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Forma o contenuto? Attenzione al “nientino d’oro”– Metodo 34

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Ripartire dall’inizio per arrivare più in là – Metodo 54

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Vi conviene ripartire dall’inizio ogni volta che vi accorgete di non saper più dove andare. Succede fin troppo spesso. Siete impegnati in un lavoro creativo che via via si fa più ingarbugliato e a un certo punto non sapete più che direzione scegliere. Così, vi ingarbugliate ancora di più in un crescendo di tentativi frustranti. […]

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4 cose da chiedersi prima di cominciare un lavoro creativo – Metodo 64

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Cominciare un lavoro creativo spesso è il momento più difficile dell’intero processo. In realtà, cominciare a fare qualsiasi cosa (anche a mettere ordine negli armadi, a organizzare un viaggio o a fare i compiti) chiede un di più di fatica: se non altro, quella di prendere la decisione che conviene darsi da fare. Ma un […]

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Chiudi il becco (sto pensando)! – Metodo 79

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